Specchio della psiche e della
civiltà
GIUSEPPE
PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 19 giugno
2021.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Undicesima Parte)
21. Da come insegnava la
matematica Agnolo Poliziano al riconoscimento del valore dell’altro in Brunelleschi
per comprendere la bellezza a tutela della sostanza. Continuo le mie
riflessioni sulle tracce storiche della mente rinascimentale, perché ritengo
che abbiamo ancora molto da capire ed apprendere da un mondo in cui i principi
ideali e le priorità morali erano protetti da un grado di onestà
sociale e lealtà interindividuale molto più elevato di quello attuale.
Un’epoca in cui i valori nell’arte
non erano definiti da approdi intellettualistici quali quelli post-moderni, ma radicati
nel piacere estetico evocato da espressioni concepite sul prototipo del bello
naturale e sviluppati per contenuti intesi alla diffusione universale[1]. Un tempo in cui l’abilità di una persona era ritenuta dalla maggioranza
un patrimonio comune e non calpestata per interessi personalistici, di parte o
di partito, come comunemente si fa nelle società contemporanee, senza avere più
nemmeno l’indignazione di quei giovani puri amanti del giusto e vero,
che dalla notte dei tempi sono patrimonio prezioso di ogni generazione.
L’intimo legame tra cura della sapienza,
riconoscimento dell’altro e coscienza morale individuale e collettiva,
costituiscono la base psichica di un modello antropologico che in ogni
stagione della storia può far progredire e migliorare l’uomo[2].
Il fare, saper fare e far sapere,
come estensione dell’ora et labora nella pragmatica quotidiana di
Lorenzo e Leonardo da giovani, è un motto che rappresenta più di ogni altro lo
spirito del tempo, interessando campi cruciali dell’esperienza culturale, dalla
pedagogia alla pubblicità, intesa quest’ultima come decisione, in base al valore,
di diffondere a stampa un lavoro di scrittura o mettere in mostra un’opera d’arte
figurativa[3].
La separazione settoriale tra
discipline umanistiche e scientifiche nasce dall’esigenza di un insegnamento approfondito
e specializzato e non con l’intento di creare barriere mentali ed esclusioni
pregiudiziali, quali quelle che spesso si incontrano ai nostri giorni. Come ho
già ricordato in precedenza, il modello fiorentino dello studio completo delle
arti del trivio e del quadrivio era stato seguito nella
costituzione dell’Università di Oxford, e in molte città europee si considerava
questa caratteristica italiana il modo migliore di interpretare la grande tradizione
greca del sapere che forma lo spirito del singolo e consente il progresso di
una civiltà. Anche se era abbastanza frequente già nel Medioevo la tentazione
di istruire i propri figli fin da piccoli a una singola arte, per farli emergere
fra gli altri come virtuosi, la formazione preferita sotto l’impulso dell’Accademia
fiorentina prevedeva il vasto respiro dell’epoca classica. Perché
sacrificare sull’altare del sapere specialistico l’armonica formazione della
mente in tutte le possibili espressioni dell’intelletto?
Se si indaga su programmi e metodi
di insegnamento adottati da quell’eccellente umanista che era Agnolo Poliziano,
tra i precettori più celebri perché prescelto da Lorenzo il Magnifico per figli
e nipoti, si è sorpresi dalla cura che poneva nell’insegnamento della
matematica.
Un delizioso piccolo trattato di
aritmetica appartenuto a Giuliano, nipote di Lorenzo, si può ammirare nella Biblioteca
Riccardiana: era il libro di testo consigliato dal Poliziano agli scolaretti per
la prima formazione. Elegantemente miniato, è composto da 122 fogli di sedici
centimetri di lunghezza per undici di larghezza, e contiene matrici simmetriche
di numeri naturali, per eseguire qualsiasi moltiplicazione[4], esercizi risolti, come esempi, ed esercizi da risolvere per acquisire le
abilità di calcolo: tutti questi elementi sono impreziositi da decorazioni
in oro e in argento, mentre i problemi propriamente detti
sono illustrati da vere e proprie scenette che forniscono un supporto
analogico all’astrazione simbolica e sono caratterizzate dal disegno di personaggi
ritratti dal vero[5].
Poliziano incoraggiava scolari e allievi,
quando si erano impadroniti della materia, a cimentarsi nella realizzazione di
strumenti didattici. E così fece Filippo Calandri, compagno di studi del dodicenne
Giuliano de’ Medici, che scrisse un volumetto di nozioni di aritmetica, ottenne
che fosse impresso a stampa nel gennaio del 1491 e lo presentò con questa
dedica al suo migliore amico: Ad nobilem et studiosum Iulanum Laurentii Medicem[6].
Il tipo di formazione dell’epoca rendeva
frequente che la creatività di un architetto potesse indifferentemente prendere
le mosse da uno spunto costruttivo ingegneristico o da un’idea puramente
artistica e poi rivolgersi al mathema per risolvere problemi di statica
o di scienza delle costruzioni. E poi, non si era come oggi dominati dall’ossessione
della standardizzazione operativa che abitua alla passività mentale e scoraggia
la ricerca di soluzioni nuove, ingegnose o creative.
La comprensione di come sia stata
possibile l’ardita realizzazione della cupola del Brunelleschi, mai tentata
prima perché considerata inattuabile, ai nostri giorni ha impegnato per decenni
Massimo Ricci dell’Università di Firenze, che indicava il problema irrisolto
nel titolo dei suoi articoli come “Il mistero della cupola di Santa Maria del Fiore” [7]. La soluzione è stata possibile solo di recente grazie all’impiego di una
sonda endoscopica introdotta attraverso una crepa e vecchi fori di carotaggio
per il controllo dei mattoni[8].
Foresto Niccolai non sembra essere d’accordo
su quale sia il mistero maggiore: “L’orologio di Paolo Uccello è il vero enigma
di S. Maria del Fiore. Sembra creato apposta per far ammattire perfino i più
esperti solutori di rebus”[9].
Sì, perché l’opera d’arte, realizzata
intorno al 1444 con quattro profeti dipinti nei canti, i suoi bei numeri romani
e il fondo azzurro del cerchio centrale, è provvista di un’unica lancetta che,
per giunta, gira in senso antiorario. Non aiuta molto sapere che la
sistemazione delle ore segue la disposizione dell’antica meridiana, perché non
c’è un’ombra che si muove col sole sul tracciato. Si prova allora a verificare
lo scarto con l’ora indicata dal proprio orologio o dal telefonino: alle 7,30
la lancetta dell’orologio di Paolo Uccello segna le 14; alle 18,30 segna le
due. Si può dunque ipotizzare un semplice scarto di 6 ore e 30 minuti; ma
ripetendo il rilievo, poniamo dopo un mese o due, scopriamo che lo scarto è diverso.
Qual è dunque la regola?[10]
In realtà, quell’orologio è una
testimonianza dell’antico sistema di misura del tempo definito hora italica,
ufficialmente introdotta in Firenze nel 1315, ma a Prato già seguita dal 1305,
e consistente in un criterio cristiano che assumeva come punto di partenza il
suono delle campane dell’Ave Maria di fine giornata, cioè al tramonto e, a quel
tempo, fissava le 24, ossia l’ultima ora diana; la prima ora dopo il tramonto
era l’una. Con il cambiare delle stagioni l’ora del tramonto varia dalle 17
alle 20 e, dunque, per sapere che ora è guardando quell’orologio è opportuno
munirsi della tabella comparativa dell’Ave Maria.
Chiedo scusa al lettore per essermi
soffermato così a lungo su quella che appare una semplice curiosità, ma mi è
sembrato opportuno illustrare questo modo, che ha caratterizzato lo scandire
del tempo per circa mezzo millennio fino alle soglie del XIX secolo[11], perché richiama l’attenzione su un aspetto della coscienza collettiva oggi
difficile da concepire. Il sistema ha per fulcro l’Ave Maria della sera: l’Ave
Maria è una preghiera che attualizza la fine della vita, chiedendo alla Madre
celeste di pregare nell’ora della morte, ed era seguita sul far della sera dall’esame
di coscienza che fa un buon cristiano prima di consegnarsi al riposo notturno,
dal quale non è certo di risvegliarsi, perché al mattino, appena sveglio,
ringrazierà il Signore di averlo “conservato in quella notte”.
Come è evidente, non si tratta di
una semplice convenzione come contare gli anni dalla nascita di Cristo,
indicando con “a.C.” e “d.C.” o “Annus Domini” le date; è in questione il
legare la consapevolezza del tempo che passa, di cui banalmente ci si rende
conto per le ore che scandiscono gli impegni del giorno, alla coscienza
spirituale del bene e del male compiuti nel tempo della vita come
trovandosi sempre di fronte alla morte, sinonimo di giudizio.
Anche un’evocazione di così grande
presa sulla coscienza collettiva può essere ignorata, come ci testimoniano gli accadimenti
storici, ma richiede una volontà di rifiuto o un’assoluta distanza interiore,
quale quella di un profondo e convinto scetticismo ateo.
Sia che la responsabilità
interindividuale fosse promossa dal sentire di dover dar conto a Dio delle
proprie azioni, sia che dipendesse solo da una civile adesione a canoni di buona
educazione familiare, rimane come evidenza storica che il grado medio di onestà
sociale e lealtà erano decisamente maggiori di quelli che possiamo registrare
oggi.
Il riconoscimento del valore
altrui, principio che nel cristianesimo è spontaneo corollario dell’amore
del prossimo e della verità, a mio avviso è un indice significativo del grado
di civiltà e maturità di un popolo; come ho già sottolineato in altre
occasioni, è intimamente connesso con l’espressione della concezione della
bellezza.
Uno splendido esempio lo abbiamo in
un episodio della Firenze rinascimentale, al tempo del concorso indetto per la decorazione
in bronzo dorato dei portali del Battistero di San Giovanni: fra i partecipanti
al concorso vi era Filippo Brunelleschi, celebre e celebrato fondatore con Donatello
e Masaccio del Rinascimento[12], e uno sconosciuto, Lorenzo Ghiberti, la cui formella di saggio era tanto
più bella di quella del famoso maestro, da indurre i giudici, in grande imbarazzo,
a dichiarare l’ex-aequo fra i due. Ma Brunelleschi, visto il lavoro del
Ghiberti, lo riconobbe vincitore e si fece da parte, rinunciando alla
possibilità di una collaborazione con l’elegante pretesto che si sarebbe notata
una differenza di stile. La generosità di Brunelleschi ha fatto emergere il
valore di Lorenzo Ghiberti e ha avuto una conseguenza molto importante.
Infatti, la prima porta eseguita dal
Ghiberti per l’ingresso principale e completata nel 1424 fu collocata, invece, sul
lato nord del Battistero e poi, senza un nuovo concorso, gli fu affidata l’esecuzione
della porta per il lato est, ossia l’entrata principale, alla quale Ghiberti lavorò
con vari aiuti, compresi i figli Vittore e Tommaso, per 27 anni, realizzando quell’opera
straordinaria detta da Michelangelo “Porta del Paradiso” e unanimemente
considerata il massimo capolavoro di decorazione orafa di tutti i tempi[13].
Traggo dallo scritto di Monica
Lanfredini Alla ricerca della bellezza perduta alcune considerazioni più generali che introducono il senso posto in
gioco dall’atto di lealtà compiuto da Brunelleschi:
“La bellezza
esiste se qualcuno la riconosce e, con la sua ammirazione e il suo rispetto, la
indica agli altri, consentendo alla facoltà di vederla nelle persone e nel
mondo, insita nel cervello, di rivelarsi[14]. Queste parole, che ci ricordano la relatività di una
categoria trattata spesso come un assoluto, esprimono in sintesi sia la natura
di dimensione reale che nasce e vive per riconoscimento percettivo sia la
funzione rivelatrice ed educativa del mostrare il bello come fa un genitore che
indica a un bambino la bellezza di un tramonto, o un esteta che richiama l’attenzione
su un capolavoro ignorato[15]. Chi riconosce e mostra la bellezza a quanti non riescono
o non sanno più vederla? Il problema del presente sembra proprio essere la
progressiva, lenta ma inarrestabile, perdita di sensibilità etico-estetica e di
interpreti che la coltivino come valore di vita da trasmettere alle generazioni
future”[16]. E poi si dice della necessità di avere interpreti
della bellezza che, mostrandola agli altri, le diano vita “perché se la forma è
svuotata della sostanza costituita dall’attualità umana che le dà vita, si
riduce a simulacro di sé stessa”.
Il gesto del
Brunelleschi, rivelatore di una cultura, non è consistito nel semplice riconoscimento
oggettivo di una qualità, ma nell’attribuirle la sostanza di un valore primario,
di un bene che va tutelato a vantaggio di tutti, al punto da indicarla a
discapito del proprio interesse materiale di aggiudicarsi il lavoro, trattando
la bellezza come l’onesto considera la verità.
Un’istituzione fiorentina sui
generis e difficile da concepire al giorno d’oggi era quella dei Signori Otto
di Balìa, perché, vigilando su costumi, condotte e comportamenti pubblici occasionali,
garantivano sicurezza e bellezza come diritto dei cittadini e
indice di civiltà. Avevano sia un compito di controllo delle vie cittadine, con
la facoltà di emanare editti e bandi di regolamentazione e divieto, sia ruoli
istituzionali consultivi ed esecutivi[17]. Uno dei loro bandi, che proibisce di giocare a palla o a bocce (pallottole)
nel raggio di venti braccia dalla Badia fiorentina, scolpito in due lapidi di
marmo collocate rispettivamente a destra della Torre della Castagna, in Via dei
Magazzini, e alla sua sinistra, in Via Dante Alighieri, è ancora oggi leggibile
e fotografabile[18].
Uno di questi bandi vietava di fare “baccano
et brutture”.
22. Leonardo e la sua tenacia
perseverante in risposta alla perdita del suo piccolo ma straordinario mondo
fiorentino. Abbiamo lasciato Leonardo contrariato e amareggiato per essere
stato allontanato dalla sala settoria dell’Ospedale di Santo Spirito in Roma, col
pretesto di un sospetto di negromanzia formulato da un assistente tedesco.
Personalmente non credo nella buona
fede dell’addetto germanico alla dissezione, e ho usato deliberatamente il
termine “pretesto” per chiarire la mia convinzione desunta dallo studio di
materiali documentali e resoconti storici; tuttavia, non disponendo di prove
certe, è corretto e ragionevole che ammetta la possibilità che costui abbia sinceramente
ritenuto che Leonardo da Vinci volesse trafugare parti di cadavere allo scopo di
impiegarle in anacronistici riti magici che, come abbiamo visto in precedenza,
nel mondo cristiano erano considerati pratiche demoniache perseguite con la scomunica.
Ma, nell’ipotesi della buona fede, si può fare una breve riflessione su un
aspetto dell’ordinaria presenza di stranieri in Italia a quell’epoca[19].
In Alemagna la negromanzia aveva
profonde radici nel sostrato preromano, quando discendenti dei popoli che
abitavano la foresta nera o di Druidi, integrati per generazioni con un ruolo
sociale preminente, eseguivano rituali divinatori con resti di cadaveri. Dopo la messa
al bando da parte dei Romani in epoca imperiale, queste tradizioni primitive
erano riemerse in quegli anni come ars Goetia,
diventando una moda culturale anche nel ceto colto e nobile. Al contrario, in
Italia simili riti erano circoscritti a piccole realtà dell’entroterra dove
regnavano analfabetismo e sincretismo apotropaico: un Italiano molto
difficilmente avrebbe adombrato una simile possibilità in un raffinato artista proveniente
dalla Firenze cristiana e neoplatonica.
Accantonato
questo spiacevole episodio che, oltre a rallentare la realizzazione del
progetto di illustrare tutta l’anatomia umana rammentava traumaticamente la durezza
del presente, Leonardo deve fare i conti con una paziente ricostruzione
interiore dopo la fine di quel mondo che era sostenuto e voluto dall’amico e
mecenate, capace di raccogliere intorno a sé un’arcadia di animi nobili vent’anni
prima che l’Arcadia fosse teorizzata da Jacopo Sannazzaro, capace di creare per
ciascuno un posto e un ruolo, capace di aiutarlo a superare il suo disagio di
ingegnere tra i poeti, conferendogli l’identità sociale, poi da tutti
riconosciuta, di genio tra i geni.
Leonardo cercava di ritrovare lo
spirito di quando era vivo Lorenzo, ma in contesti differenti, come quello
della corte di Milano, con persone diverse, non era possibile ricreare lo
stesso clima. Era stato un tempo, quello della giovinezza di Leonardo e Lorenzo
in Firenze, che ha pochi paragoni nella storia.
Fra gli amici che frequentavano la
nuova Accademia Platonica di Marsilio Ficino, primo traduttore dell’opera di
Platone in latino, vi era Giovanni Pico della Mirandola, passato alla storia
come matematico, filosofo, umanista, capace di parlare fluentemente latino,
francese, greco, arabo, ebraico e aramaico, ma soprattutto abile nell’intrattenere
e nel divertire giocando con la sua intelligenza, che gli permetteva di tenere
il filo di più conversazioni, e con la sua prodigiosa memoria, che gli
consentiva di sfidare chiunque nel far mostra di poter recitare a mente tutta
la Divina Commedia[20].
Ma Pico della Mirandola dava il
meglio di sé in un altro ludo poetico rimasto nella tradizione fiorentina, e
che lui conduceva con Girolamo Benivieni, un formidabile poeta estemporaneo
amico suo e di Lorenzo: dato un metro e un soggetto, si improvvisa a turno un
verso, e si viene eliminati dalla gara se si sbaglia o si impiega troppo tempo
per rispondere. Pico era inarrivabile, inesauribile, sempre rapido e perfetto.
A ventun anni Pico era andato a studiare
teologia alla Sorbona di Parigi e le competenze acquisite lo avevano reso
gradito interlocutore di Girolamo Savonarola e dei frequentatori laici del Convento
di San Marco, incluso Leonardo.
La ricchezza di personalità tra i
giovani di quella cerchia fiorentina era impressionante: Amerigo Vespucci,
Lorenzo di Pierfrancesco, giovane banchiere detto il Popolano per distinguerlo
dal Magnifico[21], e tutta la consorteria di navigatori, cartografi ed esploratori cui si
aggiunge Giovanni da Verrazzano, porta ai coetanei artisti, umanisti, filosofi
e matematici la fresca ventata della passione per i viaggi, del desiderio di
avventura, della voglia insopprimibile di scoprire nuove terre e cercare nuovi
modi di vita[22].
Quella generazione aveva la sensazione
di avere nelle proprie mani il mondo, e di poterlo rendere migliore. L’anno
della scoperta dell’America muore Lorenzo il Magnifico e due anni dopo, a
distanza di due mesi l’uno dall’altro, sono assassinati in circostanze
misteriose Agnolo Poliziano e Pico della Mirandola[23].
Un altro evento, che merita di
essere ricostruito, aveva profondamente turbato Leonardo, probabilmente
contribuendo a determinare dentro di lui la coscienza della fine di quell’irripetibile
tempo fecondo e felice nella sua amata Firenze. Riguarda il giovane Lorenzo dei
Tornabuoni, suo ammiratore ed entusiasta allievo degli umanisti medicei che,
innamorato di una delicata, virtuosa e affascinante fanciulla capace con la sua
soave grazia di cancellare l’immagine superba di Luca Pitti, di cui era nipote,
fu ricambiato da devoto amore e, come in una favola, a soli ventuno anni poté
realizzare il suo sogno e sposarla, con una grande cerimonia resa
indimenticabile dalla partecipazione festosa ed esultante del popolo. Così si legge
in proposito: “Lorenzo Tornabuoni, spirito di umanista raffinato, «specchio
dell’eleganza» e bravo cavaliere, nella primavera del 1486 sposò Giovanna degli
Albizi, nata e vissuta nella luce. Un futuro Papa le
aveva informato lo spirito alle bone lettere, Lorenzo de’ Medici, il Poliziano,
i maestri dell’arte la ammiravano. Il matrimonio, celebrato quando Giovanna
aveva 18 anni, fu un avvenimento cittadino”[24].
Morto Lorenzo, cacciati i Medici, la
repubblica teocratica savonaroliana inaugurò un infausto periodo di condanne a
morte denominato “Terrore Piagnone”, dal soprannome di Piagnoni attribuito agli
integralisti savonaroliani per l’abituale esortazione del frate: “O fratelli e
figliuoli miei piangete sopra questi mali della Chiesa!”, nelle sue invettive contro
il clero romano[25].
Il 7 di febbraio del 1497, che era l’ultimo
giorno di carnevale, Savonarola organizzò una grande processione che terminò in
Piazza Signoria dove con i confratelli e i seguaci diede platealmente alle
fiamme tutto ciò che era fonte di peccato: gettò nel fuoco le maschere di
carnevale, le carte da gioco, i libri che riteneva contrari alla dottrina e
molti disegni che considerava osceni. Nel mese di marzo fu eletto Gonfaloniere
Bernardo del Nero che era rimasto fedele ai Medici, e tale elezione incoraggiò
Piero de’ Medici, che in esilio aveva saputo dello scontento creato in città
dalle condotte del frate e, radunata una schiera di armati, provò a tornare a
Firenze appressandosi alla Porta Romana, dove sperava di essere accolto dal popolo
come liberatore.
Il moto di popolo non si verificò, e
Piero de’ Medici, dopo aver atteso per quattro ore di fronte alle milizie di
Paolo Vitelli, si ritirò. La vicenda poteva chiudersi così, senza conflitto né
danno per alcuno, ma i seguaci di Savonarola con a capo Francesco Valori
vollero a tutti i costi dei responsabili da condannare a morte per
decapitazione, da giustiziare in modo cruento ed esemplare per scoraggiare ogni
ritorno della famiglia che aveva donato il Primo Rinascimento all’Italia e al
mondo[26].
Lamberto dell’Antella, fino allora uno
sconosciuto, è messo ai ferri e torturato fino a quando pronuncia i nomi di
coloro che avrebbero favorito il ritorno di Piero de’ Medici: oltre all’anziano
Gonfaloniere Bernardo del Nero, nomina Giannozzo Pucci, Giovanni Cambi, Niccolò
Ridolfi e Lorenzo Tornabuoni.
Dalla lettura dei documenti relativi
alle sedute delle istituzioni esecutive congiunte nella Sala del Consiglio
Maggiore di Palazzo Vecchio[27] si evince che le opinioni sono discordi sulla condanna dei cinque, per mancanza
di prove, e si chiede il voto per chiamata nominale: “Ma Francesco Valori, il
più fanatico e autorevole dei seguaci del Savonarola, accorre al banco dei Signori
e chiamato il notaio fa rogare «che egli giudica quei cittadini meritevoli
della morte e della confisca»”[28]. Si ordina agli Otto di Balia[29] di eseguire la sentenza, e questi, posto l’ordine al voto, con sei voti
favorevoli e due contrari dichiarano l’esecutività della condanna a morte per
il presunto reato d’opinione.
Contestualmente, come previsto dalla
legge, i difensori fanno ricorso e si rivolgono all’esperienza di Messere Guidantonio Vespucci che suggerisce l’appello al Consiglio
Maggiore[30]. Ecco cosa accade: “Se non che i giudici, oppressi dall’afa estiva,
combattuti fra l’odio e la paura, non vengono a capo di nulla. Escono a
mezzanotte dal Palazzo al lume delle torce”[31].
La seduta è aggiornata al 21 di
agosto. Il confronto fra la maggioranza che vuole l’immediata esecuzione della
sentenza di primo grado e la minoranza che richiede un supplemento di indagine per
una seduta di appello è subito burrascosa. I fanatici vogliono la morte
immediata dei sospetti; gli obiettori non se la sentono in mancanza di prove di
fare uccidere delle persone sospettate di aver incoraggiato la spedizione
incruenta di Piero de’ Medici. Non sono pochi quelli tra gli obiettori che
reclamano l’intervento diretto di Girolamo Savonarola, affinché si assuma la
responsabilità davanti a Dio e agli uomini della pena capitale per i cinque
accusati.
A questo punto è opportuno un inciso
al filo delle vicende così come sono state ricostruite dall’archivista Niccolai
sulla documentazione del processo sommario a Lorenzo Tornabuoni e sodali: dall’inizio
della vicenda alle sedute del mese di agosto, e in particolare nel mese di maggio,
è accaduto un fatto di estrema gravità, al quale ha fatto seguito una reazione
ancora più grave: il Papa ha scomunicato Girolamo Savonarola con bolla di scomunica
datata 13 maggio[32] e pubblicata in Firenze il 18 di giugno presso le chiese di Santa Croce,
Santo Spirito, Santa Maria Novella e Badia Fiorentina; ma Savonarola non accetta
la scomunica, dichiarando di considerarla nulla perché fondata su false accuse di
eresia. Savonarola e i seguaci operano, dunque, in regime di illegittimità
canonica. Non è cosa da poco, se si considera che il partito dei Piagnoni ha basato
il suo consenso su un integralismo, sì puro e rigoroso, ma nella comunione di
Santa Madre Chiesa.
Torniamo in Palazzo Vecchio, dove i
veri cristiani e gli altri rappresentanti di buoni sentimenti le stanno provando
tutte per salvare la vita di quegli innocenti. Si ricorre a un vecchio stratagemma
adottato per mettere a conoscenza una commissione giudicante di notizie utili
senza rivelare la fonte: si convoca una “veggente”, che sicuramente saprà più di
quanto possano sapere i responsabili del giudizio[33].
La veggente “risponde che Bernardo
del Nero deve essere buttato giù dalle finestre di palazzo”[34]. Traduzione: Per Bernardo del Nero vi sono prove, per gli altri no. E,
dunque, ecco cosa risulta di quanto si dice in Palazzo Vecchio: “E gli altri?
Nella sua cella del Convento di San Marco v’è Girolamo Savonarola che potrebbe
dire una parola di pietà. La parola è richiesta, è attesa, ma non viene”[35]. Savonarola sa che Pilato, che pure voleva salvare Cristo ma non lo fa,
lavandosi le mani, è colpevole davanti a Dio; ma il frate non interviene:
sarebbe bastata una sua parola per salvare la vita di persone che il suo
partito politico aveva condannato a morte[36].
Ecco il commento tratto dal diario
domestico dello speziale Luca Landucci: “…Ognuno si maravigliò
che fussi fatta tal cosa, né a fatica si poteva
credere … che non fu senza lacrime di me, quando vidi passare a’ Tornaquinci, in una bara, quel
giovanetto Lorenzo…”[37].
La condanna viene eseguita il 27 di
agosto del 1497, e così Leonardo da Vinci perde anche l’ultimo amico, il più
giovane, di quelli che erano stati il suo mondo, il suo presente, il suo
futuro, i suoi giudici affettuosi, i suoi critici acuti, intelligenti e spassionati,
i suoi più grandi ammiratori, coloro ai quali per anni aveva pensato quali
primi referenti durante l’intenso impegno nello studio e nell’arte.
Ma, quei giovani amici che
costituivano le eccellenze della corte medicea, cosa si aspettavano da Leonardo
da Vinci?
Si aspettavano che, grazie alla sua
capacità unica di osservazione analitica, studiando il cervello, scoprisse il
mistero dell’anima.
23. Leonardo e la ricerca del “senso
comune” nel cervello quale via per rintracciare l’anima nel corpo. Fin dalle
prime esplorazioni ossee del cranio, quando realizza delle sezioni mai
concepite in precedenza, con una resa prospettica dell’interno che mostra le
strutture sfenoidali e della fossa cranica posteriore mai viste prima da occhio
umano, Leonardo si prepara allo studio di quel contenuto encefalico tanto
prezioso, delicato e deperibile[38] che è all’origine della personalità e dell’identità di tutti e di ciascuno,
con la consapevolezza di essersi assunto una missione epocale, superiore per
importanza a quella di Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci[39], ai quali sperava di potersi accomunare nel destino di riuscire dove tutti
avevano fallito.
Leonardo esamina le dodici paia di
nervi cranici che emergono dalla superficie dell’encefalo e, in massima parte,
attraversano fori della base ossea del cranio per dirigersi alla periferia; ma sa
che erano stati enumerati e descritti doviziosamente già dai primi anatomisti
greci e ora ci si attende di capire qualcosa delle loro funzioni. Non considera
la funzione motoria dei nervi perché, ritenendoli cavi in quanto così
apparivano alla vista per il modo in cui procedevano nella dissezione, non riusciva
a formulare un’ipotesi su come quell’aria potesse trasmettere la volontà ai
muscoli. Allora si concentra sulla funzione sensoriale: Leonardo suppone che questa
possa essere la chiave di volta per scoprire il rapporto tra cervello e
spirito.
Infatti, ragionando secondo le
conoscenze del tempo, che derivano da ipotesi antiche, Leonardo esplora i cinque
sensi e i loro nervi come vie che portano le sensazioni al cervello, dove
convergono necessariamente in un’area dell’organo in cui tutte le sensazioni
possono essere rilevate, generando affectus,
termine latino col quale si traduceva il concetto aristotelico di stato
interno indotto da uno stimolo esterno. Le indie occidentali o, meglio, l’America
di Leonardo era costituita da quel territorio inesplorato del cervello dove si
riteneva giungessero tutte le percezioni e che era stato denominato in modo affascinante
e ambiguo “senso comune”.
Per trovare la via da percorrere all’interno
del cervello, il Genio vinciano comincia dal senso della vista, disegnando
accuratamente i bulbi oculari, realizzando un modello vitreo di occhio ed
eseguendo un disegno molto interessante, ufficialmente rubricato come “Osservatore
che scruta dentro un modello vitreo di occhio umano” (Manoscritto D – 3v).
In realtà si tratta di uno schema di ottica che illustra i principi della
visione in modo sorprendentemente moderno. Proseguendo le osservazioni, cerca
di comprendere il modo in cui i due nervi ottici si formano dall’interno dell’occhio,
e si rende conto che sono diversi da tutti gli altri nervi. Oggi sappiamo,
infatti, che i nervi ottici non sono affatto dei nervi per struttura istologica,
ma sono dei fasci di sostanza bianca del cervello, che continuiamo a denominare
così per convenzione.
Due tratti di sostanza bianca, due
emanazioni del cervello: Leonardo ha trovato la via giusta da percorrere a
ritroso per entrare con il più importante dei sensi, quello della vista, nella
compagine encefalica. Bisogna, con precisione da cesellatore e pazienza da
miniaturista, procedere millimetro dopo millimetro. Ma l’insidia della
fragilità complica tutto: di fronte a un’interruzione è quasi impossibile
sapere se la via si arresta in quel punto o la manipolazione ha lacerato la
delicata materia. L’unico modo è ricominciare daccapo, procedere con altre
dissezioni, e ragionare in base al confronto.
Leonardo non si arrende e, col suo
celebre “ostinato rigore”, prosegue fino ad essere certo di una cosa: la parte
principale del nervo ottico di ciascun lato non va direttamente al cervello, ma
attraversa la linea mediana e va dall’altra parte. Lo fanno entrambi i nervi e
si congiungono formando una struttura bianca trasversale dai cui angoli
posteriori i tratti ottici riprendono, incrociati, la loro via per entrare nel
cervello. Leonardo disegna questa formazione per la prima volta: aveva scoperto
il chiasma ottico.
Lo stereotipo della Chiesa oscurantista
che perseguita gli scienziati, nato in seno alla cultura contemporanea, ha
fatto dimenticare o trascurare gli studi pionieristici sul cervello condotti da
ecclesiastici fin dal tempo dei Padri della Chiesa. Sono le copie di tali
scritti e disegni custodite nei monasteri a oltre mille anni di distanza a costituire
il sapere sul cranio e sull’encefalo di cui disponevano i medici del
Rinascimento.
In realtà, tutte le principali
cognizioni sulla dissezione del cervello e sull’interpretazione di quanto osservato
risalgono ai Greci, alla medicina ippocratica, e in parte ai primi studi di
fisiologia cerebrale condotti da Galeno di Pergamo; la lettura di quei
manoscritti in epoca cristiana aveva costituito la traccia seguita dai Padri
della Chiesa.
Dall’idea che si era fatto l’anatomista
Nemesio, vescovo di Emesa, ripresa da Sant’Agostino,
prende le mosse Leonardo da Vinci[40]: le cavità presenti nell’encefalo o ventricoli cerebrali, nei quali
circola il fluido cefalo-rachidiano o liquor, per mancanza di esperienza e
tecnica anatomica, all’osservazione degli antichi risultavano collassate e vuote,
così i Greci ritennero che, quando la persona era in vita, al loro interno vi
fosse qualcosa di simile all’aria, un pneuma, che si identificava con l’anima.
[continua]
L’autore della
nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la
correzione della bozza e invita alla
lettura degli scritti di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-19 giugno 2021
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La Società Nazionale di Neuroscienze
BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata
presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] L’universalismo introdotto dalla
cultura cristiana, che nasce come messaggio di salvezza per l’umanità intera,
nel Medioevo aveva trovato, fra i tanti ostacoli, quello della militarizzazione
della società che viveva arroccata o segregata in case-torri, che aveva piccole
cittadelle nei castelli separati dal mondo circostante da fossati e ponti
levatoi e, in alcuni periodi storici, aveva fino al quaranta percento della
popolazione all’interno di edifici claustrali. Le abbazie benedettine (dal
VI sec.) comprendevano, oltre al monastero propriamente detto e alla chiesa
basilicale con chiostro e coro, officine per gli artigiani, magazzini,
infermeria e foresteria; intorno a esse sorgevano poi centri abitati. Le
certose avevano un orto per ogni cella destinata al singolo religioso (monaco).
Le collegiate o capitolo dei canonici diventavano casa e scuola di
celestini, bambini senza famiglia o indigenti. In generale, gli edifici monastici
avevano anche funzione per i laici di refugium, inteso come ritiro
spirituale dal mondo, ma anche come autoreclusione protettiva.
[2] Un modello oggi accantonato nell’incomprensione,
quando non irriso e sbeffeggiato dalla rozzezza ottusa e vile di coloro che, in
ogni tempo, considerano l’agire disinteressato in funzione ideale una stoltezza
e una debolezza nella vita, da loro concepita come una lotta sleale e anche
delinquenziale per l’affermazione di sé a discapito degli altri.
[3] La differenza tra quel tempo e i
giorni nostri può ben essere resa per metonimia dallo scarto semantico relativo
all’accezione del termine pubblicità, che oggi vuol dire propaganda
commerciale, la cui invadente e indiscussa priorità, che ha superato quella
dei valori predicati da un Uomo-Dio denominato Sophia (Sapienza) dai
cristiani d’Oriente, può spiegarsi solo con la tacita idolatria del dio danaro.
[4] Le cosiddette “tavole
pitagoriche” (o al singolare per indicare quella delle tabelline dall’1 al 10)
non furono ideate dal matematico di Samo; la denominazione erronea si fa
risalire a un copista che trascriveva un’opera matematica di San Severino Boezio.
[5] Cfr. Foresto Niccolai, Bricciche
fiorentine – parte prima (I vol.) IV edizione, p. 41, Tipografia Coppini,
Firenze 1997.
[6] Anche questo volumetto è
custodito nella Biblioteca Riccardiana, ma prima fu incluso nella prestigiosa
biblioteca di famiglia dei Medici. I loro rampolli, oltre alle sette discipline
principali, avevano anche l’obbligo di studiare l’arte del governo e della mercatura.
[7]
Michelangelo, quando lascia
Firenze per realizzare la Cupola di San Pietro, e secondo l’aneddoto salutò la
cupola del Brunelleschi dicendo: “Vo a far la tua sorella, di te più grande ma
non di te più bella”, vuole imitare quella struttura, ma lo farà secondo i modi
del proprio ingegno. Brunelleschi non aveva usato la centina, cioè un’opera
provvisoria che funge da base d’appoggio per reggere i mattoni della cupola
fino a che non la si chiude in alto con la chiave di volta.
[8] La sonda endoscopica fu messa a
disposizione gratuitamente dalla Olympus e i risultati furono presentati dal
prof. Ricci in Palazzo Vecchio in una conferenza internazionale promossa dalla
National Geographic Society.
[9] Foresto Niccolai, Bricciche
fiorentine – parte prima (I vol.) IV edizione, p. 215, Tipografia Coppini,
Firenze 1997.
[10] È divertente sentire i turisti
di passaggio affermare con certezza che l’orologio è fermo, è guasto o manca di
una lancetta. Oggi l’abitudine all’uso di molti oggetti tecnologici senza
conoscerne il funzionamento accresce una tendenza alla passività mentale, già promossa
dall’invadenza del sistema consumistico che tende a ridurre tutti a clienti-utenti.
[11] In Firenze il criterio attuale,
detto allora “alla francese”, fu introdotto in anticipo rispetto ad altre città
e regioni, nel 1750.
[12] Di Brunelleschi ho già ricordato
la cupola di Santa Maria del Fiore, ma al tempo del concorso era noto come
inventore della prospettiva lineare centrica, cioè con un unico punto di fuga.
Fu matematico, ingegnere, architetto, scultore, orafo e scenografo; gli si deve
l’aver creato la figura dell’architetto moderno, che non fonda più la sua arte
liberale sulle abilità da capomastro (Giotto) ma sulla matematica (calcolo e geometria)
e sulla conoscenza storica.
[13] Secondo Vasari Michelangelo
disse che quella porta era degna di stare in cielo a fare da “Porta del Paradiso”.
Quel lavoro diede fama a Lorenzo Ghiberti, che fu poi chiamato per conto delle
Corporazioni delle Arti, con Donatello, Verrocchio e Giambologna, a realizzare
le statue che adornano Orsanmichele; sono di Ghiberti il San Matteo Apostolo,
il Santo Stefano e il San Giovanni Battista (Foresto Niccolai).
[14] Giuseppe Perrella, La
bellezza: essenza di un valore che supera le concezioni ideali, p. 5,
BM&L-Italia, Firenze 2019-2020 [Testo di un discorso introduttivo per un incontro
non più tenuto, causa coronavirus].
[15] Giuseppe Perrella, idem.
[16] Note e Notizie 07-11-20 Alla
ricerca della bellezza perduta.
[17] Molti autori, come le guide turistiche, li paragonano agli attuali vigili
urbani (cfr. Franco Ciarleglio, Lo Struscio
Fiorentino, p. 84, Edizioni Tipografia Bertelli 2001), ma il paragone è improprio
per varie ragioni: ad esempio, gli Otto erano organo consultivo nei processi
giudiziari e fungevano da “esecutori discrezionali” di condanne penali, incluse
le pene capitali, in quanto ponevano ai voti l’esecuzione e, solo se più di 4 l’approvavano,
la sentenza era eseguita.
[18]
Si legge: “LI
SIGNORI OTTO PROIBISCONO IL GIOCO DI PALLA PALLOTTOLE ET OGNI ALTRO STREPITOSO
VICINO ALLA BADIA A BRACCIA VENTI SOTTO PENE RIGOROSE”.
[19] Si può osservare che la coscienza culturale di radici
europee comuni consolidate in secoli di Impero Romano e Sacro Romano Impero,
con il latino come lingua veicolare, era all’origine di un modo diverso di
concepire l’appartenenza nazionale rispetto al modo più comunemente diffuso ai
giorni nostri che, per molti versi, costituisce un’involuzione verso un
primitivo territorialismo, che nega millenni di interscambi culturali e di condivisione
filosofica e religiosa. D’altra parte, la borghesia mercantile aveva superato
in vocazione internazionale la stessa nobiltà ed era stata seguita da giovani
di ogni condizione sociale, che si mettevano in viaggio desiderosi di costruire
la propria vita in un paese idealizzato, come realizzazione di un sogno.
[20] È a lui che si deve la nascita
di quella competizione ludica tra Fiorentini che prese il nome di “Dante-a-mente”
e che vede quale ultimo rappresentante dei nostri giorni Roberto Benigni.
Proprio l’amore per Dante favorì l’amicizia e il sodalizio con Agnolo
Poliziano.
[21] Fu Lorenzo il Popolano, ritratto
in quegli anni da Sandro Botticelli, a inviare Amerigo Vespucci a Siviglia dove
conobbe Cristoforo Colombo.
[22] Amerigo Vespucci denominò il continente
scoperto da Colombo “Nuovo Mondo”; nel 1507 il tedesco Martin Waldseemüller, il
più autorevole cartografo del tempo, lo denomina “America” da Americus
Vespucius, in latino, lingua internazionale della cartografia.
[23] Muore avvelenato all’età di 31
anni, per ragioni oscure, all’arrivo dei Francesi. Nel 2018, sono state
condotte analisi medico-legali sulle spoglie di Pico della Mirandola da un gruppo
di ricerca internazionale con membri spagnoli, britannici e tedeschi,
coordinati dal Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e con il
contributo del Reparto Investigazioni Scientifiche dell’Arma dei Carabinieri. L’esito
ha accertato la morte per avvelenamento da arsenico (Gallello G. et al.,
Poisoning in histories in the Italian Renaissance: The case of Pico della Mirandola
and Agnolo Poliziano. Journal of Forensic and Legal Medicine
58, 83-89, 2018). Anche
nelle ossa di Agnolo Poliziano è stato trovato arsenico in indagini condotte
per conto dell’Università di Ravenna.
[24] Foresto Niccolai, Bricciche
fiorentine – parte sesta (VI vol.), p. 83, Tipografia Coppini, Firenze 1999.
[25] Si erano create tre fazioni che
si opponevano ai Piagnoni del potere dichiaratosi democratico ma presto
rivelatosi tirannico, giustizialista e omicida: gli Arrabbiati, che sostenevano
l’oligarchia, i Compagnacci, giovani che si opponevano alla proibizione del
divertimento, e i Bigi, cosiddetti per le loro posizioni neutre dovute al
timore di dichiarare la nostalgia per la Signoria medicea, per questo detti
anche Palleschi, dalle sfere dello stemma dei Medici.
[26] Come abbiamo visto a proposito
di San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura da Bagnoregio, francescani e domenicani
– soprattutto a Firenze – erano storicamente in rapporti di stima e reciproca
legittimazione presso l’autorità papale. Con questa deriva di potere,
Savonarola e i suoi seguaci persero il sostegno dei francescani, che arrivarono
in rotta di collisione chiedendo un’ordalia con una prova del fuoco, per
verificare con due campioni dei due ordini chi fosse eretico e chi facesse
davvero la volontà di Dio. La notizia dell’ordalia giunse al Papa.
[27] I documenti sono stati consultati
dall’Archivista della Misericordia Foresto Niccolai che ne riporta i contenuti.
[28] Tratto dal verbale della seduta
del 17 agosto 1497. Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte sesta
(VI vol.), p. 84.
[29] Gli stessi che dovevano prevenire
e reprimere le “brutture”.
[30] È la nuova istituzione voluta
dal Savonarola che sostituisce tre organismi democratici della Signoria medicea
che sono stati soppressi; è prevalentemente costituita dai “beneficiati”, ossia
comuni cittadini che abbiano compiuto il ventinovesimo anno di età.
[31] Foresto Niccolai, Bricciche
fiorentine – parte sesta (VI vol.), p. 84.
[32] Si ritiene che il ruolo politico
assunto dal Savonarola e la delazione, la testimonianza o, quantomeno, la mancata
difesa presso il Papa da parte dei francescani, possano aver contribuito alla
decisione.
[33] Non deve meravigliare: negli
anni Settanta, durante il rapimento dell’onorevole Aldo Moro, il parlamento
convocò una persona accreditata di poteri paranormali come paravento per utilizzare
informazioni ottenute dall’attività segreta dei servizi di sicurezza dello
stato. In seduta spiritica emerse la parola “Gradoli”, così andarono a cercare
nella cittadina con quel nome, ma il riferimento era Via Gradoli, sede del covo
delle Brigate Rosse.
[34] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte sesta (VI vol.), idem.
[35] Foresto Niccolai, op. cit., idem.
[36] Questa considerazione si basa su
quanto emerso dai documenti e sulla lettura che oggi ne danno gli storici, ma sono
consapevole che l’emergere di altri fatti potrebbe mutare radicalmente il
quadro, e magari scagionare Savonarola.
[37] Foresto Niccolai, op. cit., p. 85.
[38] A quel tempo, non disponendo di
alcuna delle moderne tecniche di preparazione e fissazione istologica, era un’impresa
anche solo la rimozione della leptomeninge senza danneggiare la corteccia
cerebrale, figuriamoci l’esplorazione interna. Per questa ragione non si sapeva
nulla della struttura macroscopica del cervello.
[39] È lui stesso a proporre il
raffronto quando dichiara di voler realizzare – e poi di fatto realizza anche
se non ci è pervenuta tutta l’opera – a similitudine della Cosmografia di
Tolomeo un Atlante Anatomico: la scoperta di Colombo si traduce nella realizzazione
di nuove carte geografiche, le sue si tradurranno in carte anatomiche del corpo
umano.
[40] La ragione per cui nel XV secolo
si segua un modello sviluppato tra il 370 e il 400 d.C. è il quasi millenario
veto all’esecuzione di autopsie, che secondo la tradizione storica sarebbe
stato rimosso al tempo di Mondino de’ Liuzzi, ancora citato quale “autore della
prima autopsia medievale”, anche se i medievalisti hanno scoperto una realtà
molto più complessa (v. Harry Bober e Loren C. McKinney, La prima autopsia, KOS I (2): 51-60, 1984).
Si deve anche ricordare la differenza tra dissezione a scopo di studio
anatomico e autopsia, ossia il mezzo per l’esame necroscopico
necessario a formulare una diagnosi post-mortem: in questo senso la prima autopsia
documentata fu quella del 1286 di Fra’ Salimbene da Parma nel corso di un’epidemia
che, dopo aver sterminato tante galline, si era estesa all’uomo. Il medico-frate
aveva trovato all’esame delle galline morte delle vescicole sul cuore, e allora
esaminò un cadavere e trovò sul cuore umano le stesse vescicole.