Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 19 giugno 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Undicesima Parte)

 

21. Da come insegnava la matematica Agnolo Poliziano al riconoscimento del valore dell’altro in Brunelleschi per comprendere la bellezza a tutela della sostanza. Continuo le mie riflessioni sulle tracce storiche della mente rinascimentale, perché ritengo che abbiamo ancora molto da capire ed apprendere da un mondo in cui i principi ideali e le priorità morali erano protetti da un grado di onestà sociale e lealtà interindividuale molto più elevato di quello attuale.

Un’epoca in cui i valori nell’arte non erano definiti da approdi intellettualistici quali quelli post-moderni, ma radicati nel piacere estetico evocato da espressioni concepite sul prototipo del bello naturale e sviluppati per contenuti intesi alla diffusione universale[1]. Un tempo in cui l’abilità di una persona era ritenuta dalla maggioranza un patrimonio comune e non calpestata per interessi personalistici, di parte o di partito, come comunemente si fa nelle società contemporanee, senza avere più nemmeno l’indignazione di quei giovani puri amanti del giusto e vero, che dalla notte dei tempi sono patrimonio prezioso di ogni generazione.

L’intimo legame tra cura della sapienza, riconoscimento dell’altro e coscienza morale individuale e collettiva, costituiscono la base psichica di un modello antropologico che in ogni stagione della storia può far progredire e migliorare l’uomo[2].

Il fare, saper fare e far sapere, come estensione dell’ora et labora nella pragmatica quotidiana di Lorenzo e Leonardo da giovani, è un motto che rappresenta più di ogni altro lo spirito del tempo, interessando campi cruciali dell’esperienza culturale, dalla pedagogia alla pubblicità, intesa quest’ultima come decisione, in base al valore, di diffondere a stampa un lavoro di scrittura o mettere in mostra un’opera d’arte figurativa[3].

La separazione settoriale tra discipline umanistiche e scientifiche nasce dall’esigenza di un insegnamento approfondito e specializzato e non con l’intento di creare barriere mentali ed esclusioni pregiudiziali, quali quelle che spesso si incontrano ai nostri giorni. Come ho già ricordato in precedenza, il modello fiorentino dello studio completo delle arti del trivio e del quadrivio era stato seguito nella costituzione dell’Università di Oxford, e in molte città europee si considerava questa caratteristica italiana il modo migliore di interpretare la grande tradizione greca del sapere che forma lo spirito del singolo e consente il progresso di una civiltà. Anche se era abbastanza frequente già nel Medioevo la tentazione di istruire i propri figli fin da piccoli a una singola arte, per farli emergere fra gli altri come virtuosi, la formazione preferita sotto l’impulso dell’Accademia fiorentina prevedeva il vasto respiro dell’epoca classica. Perché sacrificare sull’altare del sapere specialistico l’armonica formazione della mente in tutte le possibili espressioni dell’intelletto?

Se si indaga su programmi e metodi di insegnamento adottati da quell’eccellente umanista che era Agnolo Poliziano, tra i precettori più celebri perché prescelto da Lorenzo il Magnifico per figli e nipoti, si è sorpresi dalla cura che poneva nell’insegnamento della matematica.

Un delizioso piccolo trattato di aritmetica appartenuto a Giuliano, nipote di Lorenzo, si può ammirare nella Biblioteca Riccardiana: era il libro di testo consigliato dal Poliziano agli scolaretti per la prima formazione. Elegantemente miniato, è composto da 122 fogli di sedici centimetri di lunghezza per undici di larghezza, e contiene matrici simmetriche di numeri naturali, per eseguire qualsiasi moltiplicazione[4], esercizi risolti, come esempi, ed esercizi da risolvere per acquisire le abilità di calcolo: tutti questi elementi sono impreziositi da decorazioni in oro e in argento, mentre i problemi propriamente detti sono illustrati da vere e proprie scenette che forniscono un supporto analogico all’astrazione simbolica e sono caratterizzate dal disegno di personaggi ritratti dal vero[5].

Poliziano incoraggiava scolari e allievi, quando si erano impadroniti della materia, a cimentarsi nella realizzazione di strumenti didattici. E così fece Filippo Calandri, compagno di studi del dodicenne Giuliano de’ Medici, che scrisse un volumetto di nozioni di aritmetica, ottenne che fosse impresso a stampa nel gennaio del 1491 e lo presentò con questa dedica al suo migliore amico: Ad nobilem et studiosum Iulanum Laurentii Medicem[6].

Il tipo di formazione dell’epoca rendeva frequente che la creatività di un architetto potesse indifferentemente prendere le mosse da uno spunto costruttivo ingegneristico o da un’idea puramente artistica e poi rivolgersi al mathema per risolvere problemi di statica o di scienza delle costruzioni. E poi, non si era come oggi dominati dall’ossessione della standardizzazione operativa che abitua alla passività mentale e scoraggia la ricerca di soluzioni nuove, ingegnose o creative.

La comprensione di come sia stata possibile l’ardita realizzazione della cupola del Brunelleschi, mai tentata prima perché considerata inattuabile, ai nostri giorni ha impegnato per decenni Massimo Ricci dell’Università di Firenze, che indicava il problema irrisolto nel titolo dei suoi articoli come “Il mistero della cupola di Santa Maria del Fiore” [7]. La soluzione è stata possibile solo di recente grazie all’impiego di una sonda endoscopica introdotta attraverso una crepa e vecchi fori di carotaggio per il controllo dei mattoni[8].

Foresto Niccolai non sembra essere d’accordo su quale sia il mistero maggiore: “L’orologio di Paolo Uccello è il vero enigma di S. Maria del Fiore. Sembra creato apposta per far ammattire perfino i più esperti solutori di rebus”[9].

Sì, perché l’opera d’arte, realizzata intorno al 1444 con quattro profeti dipinti nei canti, i suoi bei numeri romani e il fondo azzurro del cerchio centrale, è provvista di un’unica lancetta che, per giunta, gira in senso antiorario. Non aiuta molto sapere che la sistemazione delle ore segue la disposizione dell’antica meridiana, perché non c’è un’ombra che si muove col sole sul tracciato. Si prova allora a verificare lo scarto con l’ora indicata dal proprio orologio o dal telefonino: alle 7,30 la lancetta dell’orologio di Paolo Uccello segna le 14; alle 18,30 segna le due. Si può dunque ipotizzare un semplice scarto di 6 ore e 30 minuti; ma ripetendo il rilievo, poniamo dopo un mese o due, scopriamo che lo scarto è diverso. Qual è dunque la regola?[10]

In realtà, quell’orologio è una testimonianza dell’antico sistema di misura del tempo definito hora italica, ufficialmente introdotta in Firenze nel 1315, ma a Prato già seguita dal 1305, e consistente in un criterio cristiano che assumeva come punto di partenza il suono delle campane dell’Ave Maria di fine giornata, cioè al tramonto e, a quel tempo, fissava le 24, ossia l’ultima ora diana; la prima ora dopo il tramonto era l’una. Con il cambiare delle stagioni l’ora del tramonto varia dalle 17 alle 20 e, dunque, per sapere che ora è guardando quell’orologio è opportuno munirsi della tabella comparativa dell’Ave Maria.

Chiedo scusa al lettore per essermi soffermato così a lungo su quella che appare una semplice curiosità, ma mi è sembrato opportuno illustrare questo modo, che ha caratterizzato lo scandire del tempo per circa mezzo millennio fino alle soglie del XIX secolo[11], perché richiama l’attenzione su un aspetto della coscienza collettiva oggi difficile da concepire. Il sistema ha per fulcro l’Ave Maria della sera: l’Ave Maria è una preghiera che attualizza la fine della vita, chiedendo alla Madre celeste di pregare nell’ora della morte, ed era seguita sul far della sera dall’esame di coscienza che fa un buon cristiano prima di consegnarsi al riposo notturno, dal quale non è certo di risvegliarsi, perché al mattino, appena sveglio, ringrazierà il Signore di averlo “conservato in quella notte”.

Come è evidente, non si tratta di una semplice convenzione come contare gli anni dalla nascita di Cristo, indicando con “a.C.” e “d.C.” o “Annus Domini” le date; è in questione il legare la consapevolezza del tempo che passa, di cui banalmente ci si rende conto per le ore che scandiscono gli impegni del giorno, alla coscienza spirituale del bene e del male compiuti nel tempo della vita come trovandosi sempre di fronte alla morte, sinonimo di giudizio.

Anche un’evocazione di così grande presa sulla coscienza collettiva può essere ignorata, come ci testimoniano gli accadimenti storici, ma richiede una volontà di rifiuto o un’assoluta distanza interiore, quale quella di un profondo e convinto scetticismo ateo.

Sia che la responsabilità interindividuale fosse promossa dal sentire di dover dar conto a Dio delle proprie azioni, sia che dipendesse solo da una civile adesione a canoni di buona educazione familiare, rimane come evidenza storica che il grado medio di onestà sociale e lealtà erano decisamente maggiori di quelli che possiamo registrare oggi.

Il riconoscimento del valore altrui, principio che nel cristianesimo è spontaneo corollario dell’amore del prossimo e della verità, a mio avviso è un indice significativo del grado di civiltà e maturità di un popolo; come ho già sottolineato in altre occasioni, è intimamente connesso con l’espressione della concezione della bellezza.

Uno splendido esempio lo abbiamo in un episodio della Firenze rinascimentale, al tempo del concorso indetto per la decorazione in bronzo dorato dei portali del Battistero di San Giovanni: fra i partecipanti al concorso vi era Filippo Brunelleschi, celebre e celebrato fondatore con Donatello e Masaccio del Rinascimento[12], e uno sconosciuto, Lorenzo Ghiberti, la cui formella di saggio era tanto più bella di quella del famoso maestro, da indurre i giudici, in grande imbarazzo, a dichiarare l’ex-aequo fra i due. Ma Brunelleschi, visto il lavoro del Ghiberti, lo riconobbe vincitore e si fece da parte, rinunciando alla possibilità di una collaborazione con l’elegante pretesto che si sarebbe notata una differenza di stile. La generosità di Brunelleschi ha fatto emergere il valore di Lorenzo Ghiberti e ha avuto una conseguenza molto importante.

Infatti, la prima porta eseguita dal Ghiberti per l’ingresso principale e completata nel 1424 fu collocata, invece, sul lato nord del Battistero e poi, senza un nuovo concorso, gli fu affidata l’esecuzione della porta per il lato est, ossia l’entrata principale, alla quale Ghiberti lavorò con vari aiuti, compresi i figli Vittore e Tommaso, per 27 anni, realizzando quell’opera straordinaria detta da Michelangelo “Porta del Paradiso” e unanimemente considerata il massimo capolavoro di decorazione orafa di tutti i tempi[13].

Traggo dallo scritto di Monica Lanfredini Alla ricerca della bellezza perduta alcune considerazioni più generali che introducono il senso posto in gioco dall’atto di lealtà compiuto da Brunelleschi:

“La bellezza esiste se qualcuno la riconosce e, con la sua ammirazione e il suo rispetto, la indica agli altri, consentendo alla facoltà di vederla nelle persone e nel mondo, insita nel cervello, di rivelarsi[14]. Queste parole, che ci ricordano la relatività di una categoria trattata spesso come un assoluto, esprimono in sintesi sia la natura di dimensione reale che nasce e vive per riconoscimento percettivo sia la funzione rivelatrice ed educativa del mostrare il bello come fa un genitore che indica a un bambino la bellezza di un tramonto, o un esteta che richiama l’attenzione su un capolavoro ignorato[15]. Chi riconosce e mostra la bellezza a quanti non riescono o non sanno più vederla? Il problema del presente sembra proprio essere la progressiva, lenta ma inarrestabile, perdita di sensibilità etico-estetica e di interpreti che la coltivino come valore di vita da trasmettere alle generazioni future”[16]. E poi si dice della necessità di avere interpreti della bellezza che, mostrandola agli altri, le diano vita “perché se la forma è svuotata della sostanza costituita dall’attualità umana che le dà vita, si riduce a simulacro di sé stessa”.

Il gesto del Brunelleschi, rivelatore di una cultura, non è consistito nel semplice riconoscimento oggettivo di una qualità, ma nell’attribuirle la sostanza di un valore primario, di un bene che va tutelato a vantaggio di tutti, al punto da indicarla a discapito del proprio interesse materiale di aggiudicarsi il lavoro, trattando la bellezza come l’onesto considera la verità.

Un’istituzione fiorentina sui generis e difficile da concepire al giorno d’oggi era quella dei Signori Otto di Balìa, perché, vigilando su costumi, condotte e comportamenti pubblici occasionali, garantivano sicurezza e bellezza come diritto dei cittadini e indice di civiltà. Avevano sia un compito di controllo delle vie cittadine, con la facoltà di emanare editti e bandi di regolamentazione e divieto, sia ruoli istituzionali consultivi ed esecutivi[17]. Uno dei loro bandi, che proibisce di giocare a palla o a bocce (pallottole) nel raggio di venti braccia dalla Badia fiorentina, scolpito in due lapidi di marmo collocate rispettivamente a destra della Torre della Castagna, in Via dei Magazzini, e alla sua sinistra, in Via Dante Alighieri, è ancora oggi leggibile e fotografabile[18].

Uno di questi bandi vietava di fare “baccano et brutture”.

 

22. Leonardo e la sua tenacia perseverante in risposta alla perdita del suo piccolo ma straordinario mondo fiorentino. Abbiamo lasciato Leonardo contrariato e amareggiato per essere stato allontanato dalla sala settoria dell’Ospedale di Santo Spirito in Roma, col pretesto di un sospetto di negromanzia formulato da un assistente tedesco.

Personalmente non credo nella buona fede dell’addetto germanico alla dissezione, e ho usato deliberatamente il termine “pretesto” per chiarire la mia convinzione desunta dallo studio di materiali documentali e resoconti storici; tuttavia, non disponendo di prove certe, è corretto e ragionevole che ammetta la possibilità che costui abbia sinceramente ritenuto che Leonardo da Vinci volesse trafugare parti di cadavere allo scopo di impiegarle in anacronistici riti magici che, come abbiamo visto in precedenza, nel mondo cristiano erano considerati pratiche demoniache perseguite con la scomunica. Ma, nell’ipotesi della buona fede, si può fare una breve riflessione su un aspetto dell’ordinaria presenza di stranieri in Italia a quell’epoca[19].

In Alemagna la negromanzia aveva profonde radici nel sostrato preromano, quando discendenti dei popoli che abitavano la foresta nera o di Druidi, integrati per generazioni con un ruolo sociale preminente, eseguivano rituali divinatori con resti di cadaveri. Dopo la messa al bando da parte dei Romani in epoca imperiale, queste tradizioni primitive erano riemerse in quegli anni come ars Goetia, diventando una moda culturale anche nel ceto colto e nobile. Al contrario, in Italia simili riti erano circoscritti a piccole realtà dell’entroterra dove regnavano analfabetismo e sincretismo apotropaico: un Italiano molto difficilmente avrebbe adombrato una simile possibilità in un raffinato artista proveniente dalla Firenze cristiana e neoplatonica.

Accantonato questo spiacevole episodio che, oltre a rallentare la realizzazione del progetto di illustrare tutta l’anatomia umana rammentava traumaticamente la durezza del presente, Leonardo deve fare i conti con una paziente ricostruzione interiore dopo la fine di quel mondo che era sostenuto e voluto dall’amico e mecenate, capace di raccogliere intorno a sé un’arcadia di animi nobili vent’anni prima che l’Arcadia fosse teorizzata da Jacopo Sannazzaro, capace di creare per ciascuno un posto e un ruolo, capace di aiutarlo a superare il suo disagio di ingegnere tra i poeti, conferendogli l’identità sociale, poi da tutti riconosciuta, di genio tra i geni.

Leonardo cercava di ritrovare lo spirito di quando era vivo Lorenzo, ma in contesti differenti, come quello della corte di Milano, con persone diverse, non era possibile ricreare lo stesso clima. Era stato un tempo, quello della giovinezza di Leonardo e Lorenzo in Firenze, che ha pochi paragoni nella storia.

Fra gli amici che frequentavano la nuova Accademia Platonica di Marsilio Ficino, primo traduttore dell’opera di Platone in latino, vi era Giovanni Pico della Mirandola, passato alla storia come matematico, filosofo, umanista, capace di parlare fluentemente latino, francese, greco, arabo, ebraico e aramaico, ma soprattutto abile nell’intrattenere e nel divertire giocando con la sua intelligenza, che gli permetteva di tenere il filo di più conversazioni, e con la sua prodigiosa memoria, che gli consentiva di sfidare chiunque nel far mostra di poter recitare a mente tutta la Divina Commedia[20].

Ma Pico della Mirandola dava il meglio di sé in un altro ludo poetico rimasto nella tradizione fiorentina, e che lui conduceva con Girolamo Benivieni, un formidabile poeta estemporaneo amico suo e di Lorenzo: dato un metro e un soggetto, si improvvisa a turno un verso, e si viene eliminati dalla gara se si sbaglia o si impiega troppo tempo per rispondere. Pico era inarrivabile, inesauribile, sempre rapido e perfetto.

A ventun anni Pico era andato a studiare teologia alla Sorbona di Parigi e le competenze acquisite lo avevano reso gradito interlocutore di Girolamo Savonarola e dei frequentatori laici del Convento di San Marco, incluso Leonardo.

La ricchezza di personalità tra i giovani di quella cerchia fiorentina era impressionante: Amerigo Vespucci, Lorenzo di Pierfrancesco, giovane banchiere detto il Popolano per distinguerlo dal Magnifico[21], e tutta la consorteria di navigatori, cartografi ed esploratori cui si aggiunge Giovanni da Verrazzano, porta ai coetanei artisti, umanisti, filosofi e matematici la fresca ventata della passione per i viaggi, del desiderio di avventura, della voglia insopprimibile di scoprire nuove terre e cercare nuovi modi di vita[22].

Quella generazione aveva la sensazione di avere nelle proprie mani il mondo, e di poterlo rendere migliore. L’anno della scoperta dell’America muore Lorenzo il Magnifico e due anni dopo, a distanza di due mesi l’uno dall’altro, sono assassinati in circostanze misteriose Agnolo Poliziano e Pico della Mirandola[23].

Un altro evento, che merita di essere ricostruito, aveva profondamente turbato Leonardo, probabilmente contribuendo a determinare dentro di lui la coscienza della fine di quell’irripetibile tempo fecondo e felice nella sua amata Firenze. Riguarda il giovane Lorenzo dei Tornabuoni, suo ammiratore ed entusiasta allievo degli umanisti medicei che, innamorato di una delicata, virtuosa e affascinante fanciulla capace con la sua soave grazia di cancellare l’immagine superba di Luca Pitti, di cui era nipote, fu ricambiato da devoto amore e, come in una favola, a soli ventuno anni poté realizzare il suo sogno e sposarla, con una grande cerimonia resa indimenticabile dalla partecipazione festosa ed esultante del popolo. Così si legge in proposito: “Lorenzo Tornabuoni, spirito di umanista raffinato, «specchio dell’eleganza» e bravo cavaliere, nella primavera del 1486 sposò Giovanna degli Albizi, nata e vissuta nella luce. Un futuro Papa le aveva informato lo spirito alle bone lettere, Lorenzo de’ Medici, il Poliziano, i maestri dell’arte la ammiravano. Il matrimonio, celebrato quando Giovanna aveva 18 anni, fu un avvenimento cittadino”[24].

Morto Lorenzo, cacciati i Medici, la repubblica teocratica savonaroliana inaugurò un infausto periodo di condanne a morte denominato “Terrore Piagnone”, dal soprannome di Piagnoni attribuito agli integralisti savonaroliani per l’abituale esortazione del frate: “O fratelli e figliuoli miei piangete sopra questi mali della Chiesa!”, nelle sue invettive contro il clero romano[25].

Il 7 di febbraio del 1497, che era l’ultimo giorno di carnevale, Savonarola organizzò una grande processione che terminò in Piazza Signoria dove con i confratelli e i seguaci diede platealmente alle fiamme tutto ciò che era fonte di peccato: gettò nel fuoco le maschere di carnevale, le carte da gioco, i libri che riteneva contrari alla dottrina e molti disegni che considerava osceni. Nel mese di marzo fu eletto Gonfaloniere Bernardo del Nero che era rimasto fedele ai Medici, e tale elezione incoraggiò Piero de’ Medici, che in esilio aveva saputo dello scontento creato in città dalle condotte del frate e, radunata una schiera di armati, provò a tornare a Firenze appressandosi alla Porta Romana, dove sperava di essere accolto dal popolo come liberatore.

Il moto di popolo non si verificò, e Piero de’ Medici, dopo aver atteso per quattro ore di fronte alle milizie di Paolo Vitelli, si ritirò. La vicenda poteva chiudersi così, senza conflitto né danno per alcuno, ma i seguaci di Savonarola con a capo Francesco Valori vollero a tutti i costi dei responsabili da condannare a morte per decapitazione, da giustiziare in modo cruento ed esemplare per scoraggiare ogni ritorno della famiglia che aveva donato il Primo Rinascimento all’Italia e al mondo[26].

Lamberto dell’Antella, fino allora uno sconosciuto, è messo ai ferri e torturato fino a quando pronuncia i nomi di coloro che avrebbero favorito il ritorno di Piero de’ Medici: oltre all’anziano Gonfaloniere Bernardo del Nero, nomina Giannozzo Pucci, Giovanni Cambi, Niccolò Ridolfi e Lorenzo Tornabuoni.

Dalla lettura dei documenti relativi alle sedute delle istituzioni esecutive congiunte nella Sala del Consiglio Maggiore di Palazzo Vecchio[27] si evince che le opinioni sono discordi sulla condanna dei cinque, per mancanza di prove, e si chiede il voto per chiamata nominale: “Ma Francesco Valori, il più fanatico e autorevole dei seguaci del Savonarola, accorre al banco dei Signori e chiamato il notaio fa rogare «che egli giudica quei cittadini meritevoli della morte e della confisca»”[28]. Si ordina agli Otto di Balia[29] di eseguire la sentenza, e questi, posto l’ordine al voto, con sei voti favorevoli e due contrari dichiarano l’esecutività della condanna a morte per il presunto reato d’opinione.

Contestualmente, come previsto dalla legge, i difensori fanno ricorso e si rivolgono all’esperienza di Messere Guidantonio Vespucci che suggerisce l’appello al Consiglio Maggiore[30]. Ecco cosa accade: “Se non che i giudici, oppressi dall’afa estiva, combattuti fra l’odio e la paura, non vengono a capo di nulla. Escono a mezzanotte dal Palazzo al lume delle torce”[31].

La seduta è aggiornata al 21 di agosto. Il confronto fra la maggioranza che vuole l’immediata esecuzione della sentenza di primo grado e la minoranza che richiede un supplemento di indagine per una seduta di appello è subito burrascosa. I fanatici vogliono la morte immediata dei sospetti; gli obiettori non se la sentono in mancanza di prove di fare uccidere delle persone sospettate di aver incoraggiato la spedizione incruenta di Piero de’ Medici. Non sono pochi quelli tra gli obiettori che reclamano l’intervento diretto di Girolamo Savonarola, affinché si assuma la responsabilità davanti a Dio e agli uomini della pena capitale per i cinque accusati.

A questo punto è opportuno un inciso al filo delle vicende così come sono state ricostruite dall’archivista Niccolai sulla documentazione del processo sommario a Lorenzo Tornabuoni e sodali: dall’inizio della vicenda alle sedute del mese di agosto, e in particolare nel mese di maggio, è accaduto un fatto di estrema gravità, al quale ha fatto seguito una reazione ancora più grave: il Papa ha scomunicato Girolamo Savonarola con bolla di scomunica datata 13 maggio[32] e pubblicata in Firenze il 18 di giugno presso le chiese di Santa Croce, Santo Spirito, Santa Maria Novella e Badia Fiorentina; ma Savonarola non accetta la scomunica, dichiarando di considerarla nulla perché fondata su false accuse di eresia. Savonarola e i seguaci operano, dunque, in regime di illegittimità canonica. Non è cosa da poco, se si considera che il partito dei Piagnoni ha basato il suo consenso su un integralismo, sì puro e rigoroso, ma nella comunione di Santa Madre Chiesa.

Torniamo in Palazzo Vecchio, dove i veri cristiani e gli altri rappresentanti di buoni sentimenti le stanno provando tutte per salvare la vita di quegli innocenti. Si ricorre a un vecchio stratagemma adottato per mettere a conoscenza una commissione giudicante di notizie utili senza rivelare la fonte: si convoca una “veggente”, che sicuramente saprà più di quanto possano sapere i responsabili del giudizio[33].

La veggente “risponde che Bernardo del Nero deve essere buttato giù dalle finestre di palazzo”[34]. Traduzione: Per Bernardo del Nero vi sono prove, per gli altri no. E, dunque, ecco cosa risulta di quanto si dice in Palazzo Vecchio: “E gli altri? Nella sua cella del Convento di San Marco v’è Girolamo Savonarola che potrebbe dire una parola di pietà. La parola è richiesta, è attesa, ma non viene”[35]. Savonarola sa che Pilato, che pure voleva salvare Cristo ma non lo fa, lavandosi le mani, è colpevole davanti a Dio; ma il frate non interviene: sarebbe bastata una sua parola per salvare la vita di persone che il suo partito politico aveva condannato a morte[36].

Ecco il commento tratto dal diario domestico dello speziale Luca Landucci: “…Ognuno si maravigliò che fussi fatta tal cosa, né a fatica si poteva credere … che non fu senza lacrime di me, quando vidi passare a’ Tornaquinci, in una bara, quel giovanetto Lorenzo…”[37].

La condanna viene eseguita il 27 di agosto del 1497, e così Leonardo da Vinci perde anche l’ultimo amico, il più giovane, di quelli che erano stati il suo mondo, il suo presente, il suo futuro, i suoi giudici affettuosi, i suoi critici acuti, intelligenti e spassionati, i suoi più grandi ammiratori, coloro ai quali per anni aveva pensato quali primi referenti durante l’intenso impegno nello studio e nell’arte.

Ma, quei giovani amici che costituivano le eccellenze della corte medicea, cosa si aspettavano da Leonardo da Vinci?

Si aspettavano che, grazie alla sua capacità unica di osservazione analitica, studiando il cervello, scoprisse il mistero dell’anima.

 

23. Leonardo e la ricerca del “senso comune” nel cervello quale via per rintracciare l’anima nel corpo. Fin dalle prime esplorazioni ossee del cranio, quando realizza delle sezioni mai concepite in precedenza, con una resa prospettica dell’interno che mostra le strutture sfenoidali e della fossa cranica posteriore mai viste prima da occhio umano, Leonardo si prepara allo studio di quel contenuto encefalico tanto prezioso, delicato e deperibile[38] che è all’origine della personalità e dell’identità di tutti e di ciascuno, con la consapevolezza di essersi assunto una missione epocale, superiore per importanza a quella di Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci[39], ai quali sperava di potersi accomunare nel destino di riuscire dove tutti avevano fallito.

Leonardo esamina le dodici paia di nervi cranici che emergono dalla superficie dell’encefalo e, in massima parte, attraversano fori della base ossea del cranio per dirigersi alla periferia; ma sa che erano stati enumerati e descritti doviziosamente già dai primi anatomisti greci e ora ci si attende di capire qualcosa delle loro funzioni. Non considera la funzione motoria dei nervi perché, ritenendoli cavi in quanto così apparivano alla vista per il modo in cui procedevano nella dissezione, non riusciva a formulare un’ipotesi su come quell’aria potesse trasmettere la volontà ai muscoli. Allora si concentra sulla funzione sensoriale: Leonardo suppone che questa possa essere la chiave di volta per scoprire il rapporto tra cervello e spirito.

Infatti, ragionando secondo le conoscenze del tempo, che derivano da ipotesi antiche, Leonardo esplora i cinque sensi e i loro nervi come vie che portano le sensazioni al cervello, dove convergono necessariamente in un’area dell’organo in cui tutte le sensazioni possono essere rilevate, generando affectus, termine latino col quale si traduceva il concetto aristotelico di stato interno indotto da uno stimolo esterno. Le indie occidentali o, meglio, l’America di Leonardo era costituita da quel territorio inesplorato del cervello dove si riteneva giungessero tutte le percezioni e che era stato denominato in modo affascinante e ambiguo “senso comune”.

Per trovare la via da percorrere all’interno del cervello, il Genio vinciano comincia dal senso della vista, disegnando accuratamente i bulbi oculari, realizzando un modello vitreo di occhio ed eseguendo un disegno molto interessante, ufficialmente rubricato come “Osservatore che scruta dentro un modello vitreo di occhio umano” (Manoscritto D – 3v). In realtà si tratta di uno schema di ottica che illustra i principi della visione in modo sorprendentemente moderno. Proseguendo le osservazioni, cerca di comprendere il modo in cui i due nervi ottici si formano dall’interno dell’occhio, e si rende conto che sono diversi da tutti gli altri nervi. Oggi sappiamo, infatti, che i nervi ottici non sono affatto dei nervi per struttura istologica, ma sono dei fasci di sostanza bianca del cervello, che continuiamo a denominare così per convenzione.

Due tratti di sostanza bianca, due emanazioni del cervello: Leonardo ha trovato la via giusta da percorrere a ritroso per entrare con il più importante dei sensi, quello della vista, nella compagine encefalica. Bisogna, con precisione da cesellatore e pazienza da miniaturista, procedere millimetro dopo millimetro. Ma l’insidia della fragilità complica tutto: di fronte a un’interruzione è quasi impossibile sapere se la via si arresta in quel punto o la manipolazione ha lacerato la delicata materia. L’unico modo è ricominciare daccapo, procedere con altre dissezioni, e ragionare in base al confronto.

Leonardo non si arrende e, col suo celebre “ostinato rigore”, prosegue fino ad essere certo di una cosa: la parte principale del nervo ottico di ciascun lato non va direttamente al cervello, ma attraversa la linea mediana e va dall’altra parte. Lo fanno entrambi i nervi e si congiungono formando una struttura bianca trasversale dai cui angoli posteriori i tratti ottici riprendono, incrociati, la loro via per entrare nel cervello. Leonardo disegna questa formazione per la prima volta: aveva scoperto il chiasma ottico.

Lo stereotipo della Chiesa oscurantista che perseguita gli scienziati, nato in seno alla cultura contemporanea, ha fatto dimenticare o trascurare gli studi pionieristici sul cervello condotti da ecclesiastici fin dal tempo dei Padri della Chiesa. Sono le copie di tali scritti e disegni custodite nei monasteri a oltre mille anni di distanza a costituire il sapere sul cranio e sull’encefalo di cui disponevano i medici del Rinascimento.

In realtà, tutte le principali cognizioni sulla dissezione del cervello e sull’interpretazione di quanto osservato risalgono ai Greci, alla medicina ippocratica, e in parte ai primi studi di fisiologia cerebrale condotti da Galeno di Pergamo; la lettura di quei manoscritti in epoca cristiana aveva costituito la traccia seguita dai Padri della Chiesa.

Dall’idea che si era fatto l’anatomista Nemesio, vescovo di Emesa, ripresa da Sant’Agostino, prende le mosse Leonardo da Vinci[40]: le cavità presenti nell’encefalo o ventricoli cerebrali, nei quali circola il fluido cefalo-rachidiano o liquor, per mancanza di esperienza e tecnica anatomica, all’osservazione degli antichi risultavano collassate e vuote, così i Greci ritennero che, quando la persona era in vita, al loro interno vi fosse qualcosa di simile all’aria, un pneuma, che si identificava con l’anima.

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-19 giugno 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] L’universalismo introdotto dalla cultura cristiana, che nasce come messaggio di salvezza per l’umanità intera, nel Medioevo aveva trovato, fra i tanti ostacoli, quello della militarizzazione della società che viveva arroccata o segregata in case-torri, che aveva piccole cittadelle nei castelli separati dal mondo circostante da fossati e ponti levatoi e, in alcuni periodi storici, aveva fino al quaranta percento della popolazione all’interno di edifici claustrali. Le abbazie benedettine (dal VI sec.) comprendevano, oltre al monastero propriamente detto e alla chiesa basilicale con chiostro e coro, officine per gli artigiani, magazzini, infermeria e foresteria; intorno a esse sorgevano poi centri abitati. Le certose avevano un orto per ogni cella destinata al singolo religioso (monaco). Le collegiate o capitolo dei canonici diventavano casa e scuola di celestini, bambini senza famiglia o indigenti. In generale, gli edifici monastici avevano anche funzione per i laici di refugium, inteso come ritiro spirituale dal mondo, ma anche come autoreclusione protettiva.

[2] Un modello oggi accantonato nell’incomprensione, quando non irriso e sbeffeggiato dalla rozzezza ottusa e vile di coloro che, in ogni tempo, considerano l’agire disinteressato in funzione ideale una stoltezza e una debolezza nella vita, da loro concepita come una lotta sleale e anche delinquenziale per l’affermazione di sé a discapito degli altri.

[3] La differenza tra quel tempo e i giorni nostri può ben essere resa per metonimia dallo scarto semantico relativo all’accezione del termine pubblicità, che oggi vuol dire propaganda commerciale, la cui invadente e indiscussa priorità, che ha superato quella dei valori predicati da un Uomo-Dio denominato Sophia (Sapienza) dai cristiani d’Oriente, può spiegarsi solo con la tacita idolatria del dio danaro.

[4] Le cosiddette “tavole pitagoriche” (o al singolare per indicare quella delle tabelline dall’1 al 10) non furono ideate dal matematico di Samo; la denominazione erronea si fa risalire a un copista che trascriveva un’opera matematica di San Severino Boezio.

[5] Cfr. Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte prima (I vol.) IV edizione, p. 41, Tipografia Coppini, Firenze 1997.

[6] Anche questo volumetto è custodito nella Biblioteca Riccardiana, ma prima fu incluso nella prestigiosa biblioteca di famiglia dei Medici. I loro rampolli, oltre alle sette discipline principali, avevano anche l’obbligo di studiare l’arte del governo e della mercatura.

[7] Michelangelo, quando lascia Firenze per realizzare la Cupola di San Pietro, e secondo l’aneddoto salutò la cupola del Brunelleschi dicendo: “Vo a far la tua sorella, di te più grande ma non di te più bella”, vuole imitare quella struttura, ma lo farà secondo i modi del proprio ingegno. Brunelleschi non aveva usato la centina, cioè un’opera provvisoria che funge da base d’appoggio per reggere i mattoni della cupola fino a che non la si chiude in alto con la chiave di volta.

[8] La sonda endoscopica fu messa a disposizione gratuitamente dalla Olympus e i risultati furono presentati dal prof. Ricci in Palazzo Vecchio in una conferenza internazionale promossa dalla National Geographic Society.

[9] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte prima (I vol.) IV edizione, p. 215, Tipografia Coppini, Firenze 1997.

[10] È divertente sentire i turisti di passaggio affermare con certezza che l’orologio è fermo, è guasto o manca di una lancetta. Oggi l’abitudine all’uso di molti oggetti tecnologici senza conoscerne il funzionamento accresce una tendenza alla passività mentale, già promossa dall’invadenza del sistema consumistico che tende a ridurre tutti a clienti-utenti.

[11] In Firenze il criterio attuale, detto allora “alla francese”, fu introdotto in anticipo rispetto ad altre città e regioni, nel 1750.

[12] Di Brunelleschi ho già ricordato la cupola di Santa Maria del Fiore, ma al tempo del concorso era noto come inventore della prospettiva lineare centrica, cioè con un unico punto di fuga. Fu matematico, ingegnere, architetto, scultore, orafo e scenografo; gli si deve l’aver creato la figura dell’architetto moderno, che non fonda più la sua arte liberale sulle abilità da capomastro (Giotto) ma sulla matematica (calcolo e geometria) e sulla conoscenza storica.

[13] Secondo Vasari Michelangelo disse che quella porta era degna di stare in cielo a fare da “Porta del Paradiso”. Quel lavoro diede fama a Lorenzo Ghiberti, che fu poi chiamato per conto delle Corporazioni delle Arti, con Donatello, Verrocchio e Giambologna, a realizzare le statue che adornano Orsanmichele; sono di Ghiberti il San Matteo Apostolo, il Santo Stefano e il San Giovanni Battista (Foresto Niccolai).

[14] Giuseppe Perrella, La bellezza: essenza di un valore che supera le concezioni ideali, p. 5, BM&L-Italia, Firenze 2019-2020 [Testo di un discorso introduttivo per un incontro non più tenuto, causa coronavirus].

[15] Giuseppe Perrella, idem.

[16] Note e Notizie 07-11-20 Alla ricerca della bellezza perduta.

[17] Molti autori, come le guide turistiche, li paragonano agli attuali vigili urbani (cfr. Franco Ciarleglio, Lo Struscio Fiorentino, p. 84, Edizioni Tipografia Bertelli 2001), ma il paragone è improprio per varie ragioni: ad esempio, gli Otto erano organo consultivo nei processi giudiziari e fungevano da “esecutori discrezionali” di condanne penali, incluse le pene capitali, in quanto ponevano ai voti l’esecuzione e, solo se più di 4 l’approvavano, la sentenza era eseguita.

[18] Si legge: “LI SIGNORI OTTO PROIBISCONO IL GIOCO DI PALLA PALLOTTOLE ET OGNI ALTRO STREPITOSO VICINO ALLA BADIA A BRACCIA VENTI SOTTO PENE RIGOROSE”.

[19] Si può osservare che la coscienza culturale di radici europee comuni consolidate in secoli di Impero Romano e Sacro Romano Impero, con il latino come lingua veicolare, era all’origine di un modo diverso di concepire l’appartenenza nazionale rispetto al modo più comunemente diffuso ai giorni nostri che, per molti versi, costituisce un’involuzione verso un primitivo territorialismo, che nega millenni di interscambi culturali e di condivisione filosofica e religiosa. D’altra parte, la borghesia mercantile aveva superato in vocazione internazionale la stessa nobiltà ed era stata seguita da giovani di ogni condizione sociale, che si mettevano in viaggio desiderosi di costruire la propria vita in un paese idealizzato, come realizzazione di un sogno.

[20] È a lui che si deve la nascita di quella competizione ludica tra Fiorentini che prese il nome di “Dante-a-mente” e che vede quale ultimo rappresentante dei nostri giorni Roberto Benigni. Proprio l’amore per Dante favorì l’amicizia e il sodalizio con Agnolo Poliziano.

[21] Fu Lorenzo il Popolano, ritratto in quegli anni da Sandro Botticelli, a inviare Amerigo Vespucci a Siviglia dove conobbe Cristoforo Colombo.

[22] Amerigo Vespucci denominò il continente scoperto da Colombo “Nuovo Mondo”; nel 1507 il tedesco Martin Waldseemüller, il più autorevole cartografo del tempo, lo denomina “America” da Americus Vespucius, in latino, lingua internazionale della cartografia.

[23] Muore avvelenato all’età di 31 anni, per ragioni oscure, all’arrivo dei Francesi. Nel 2018, sono state condotte analisi medico-legali sulle spoglie di Pico della Mirandola da un gruppo di ricerca internazionale con membri spagnoli, britannici e tedeschi, coordinati dal Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e con il contributo del Reparto Investigazioni Scientifiche dell’Arma dei Carabinieri. L’esito ha accertato la morte per avvelenamento da arsenico (Gallello G. et al., Poisoning in histories in the Italian Renaissance: The case of Pico della Mirandola and Agnolo Poliziano. Journal of Forensic and Legal Medicine 58, 83-89, 2018). Anche nelle ossa di Agnolo Poliziano è stato trovato arsenico in indagini condotte per conto dell’Università di Ravenna.

[24] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte sesta (VI vol.), p. 83, Tipografia Coppini, Firenze 1999.

[25] Si erano create tre fazioni che si opponevano ai Piagnoni del potere dichiaratosi democratico ma presto rivelatosi tirannico, giustizialista e omicida: gli Arrabbiati, che sostenevano l’oligarchia, i Compagnacci, giovani che si opponevano alla proibizione del divertimento, e i Bigi, cosiddetti per le loro posizioni neutre dovute al timore di dichiarare la nostalgia per la Signoria medicea, per questo detti anche Palleschi, dalle sfere dello stemma dei Medici.

[26] Come abbiamo visto a proposito di San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura da Bagnoregio, francescani e domenicani – soprattutto a Firenze – erano storicamente in rapporti di stima e reciproca legittimazione presso l’autorità papale. Con questa deriva di potere, Savonarola e i suoi seguaci persero il sostegno dei francescani, che arrivarono in rotta di collisione chiedendo un’ordalia con una prova del fuoco, per verificare con due campioni dei due ordini chi fosse eretico e chi facesse davvero la volontà di Dio. La notizia dell’ordalia giunse al Papa.

[27] I documenti sono stati consultati dall’Archivista della Misericordia Foresto Niccolai che ne riporta i contenuti.

[28] Tratto dal verbale della seduta del 17 agosto 1497. Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte sesta (VI vol.), p. 84.

[29] Gli stessi che dovevano prevenire e reprimere le “brutture”.

[30] È la nuova istituzione voluta dal Savonarola che sostituisce tre organismi democratici della Signoria medicea che sono stati soppressi; è prevalentemente costituita dai “beneficiati”, ossia comuni cittadini che abbiano compiuto il ventinovesimo anno di età.

[31] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte sesta (VI vol.), p. 84.

[32] Si ritiene che il ruolo politico assunto dal Savonarola e la delazione, la testimonianza o, quantomeno, la mancata difesa presso il Papa da parte dei francescani, possano aver contribuito alla decisione.

[33] Non deve meravigliare: negli anni Settanta, durante il rapimento dell’onorevole Aldo Moro, il parlamento convocò una persona accreditata di poteri paranormali come paravento per utilizzare informazioni ottenute dall’attività segreta dei servizi di sicurezza dello stato. In seduta spiritica emerse la parola “Gradoli”, così andarono a cercare nella cittadina con quel nome, ma il riferimento era Via Gradoli, sede del covo delle Brigate Rosse.

[34] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte sesta (VI vol.), idem.

[35] Foresto Niccolai, op. cit., idem.

[36] Questa considerazione si basa su quanto emerso dai documenti e sulla lettura che oggi ne danno gli storici, ma sono consapevole che l’emergere di altri fatti potrebbe mutare radicalmente il quadro, e magari scagionare Savonarola.

[37] Foresto Niccolai, op. cit., p. 85.

[38] A quel tempo, non disponendo di alcuna delle moderne tecniche di preparazione e fissazione istologica, era un’impresa anche solo la rimozione della leptomeninge senza danneggiare la corteccia cerebrale, figuriamoci l’esplorazione interna. Per questa ragione non si sapeva nulla della struttura macroscopica del cervello.

[39] È lui stesso a proporre il raffronto quando dichiara di voler realizzare – e poi di fatto realizza anche se non ci è pervenuta tutta l’opera – a similitudine della Cosmografia di Tolomeo un Atlante Anatomico: la scoperta di Colombo si traduce nella realizzazione di nuove carte geografiche, le sue si tradurranno in carte anatomiche del corpo umano.

[40] La ragione per cui nel XV secolo si segua un modello sviluppato tra il 370 e il 400 d.C. è il quasi millenario veto all’esecuzione di autopsie, che secondo la tradizione storica sarebbe stato rimosso al tempo di Mondino de’ Liuzzi, ancora citato quale “autore della prima autopsia medievale”, anche se i medievalisti hanno scoperto una realtà molto più complessa (v. Harry Bober e Loren C. McKinney, La prima autopsia, KOS I (2): 51-60, 1984). Si deve anche ricordare la differenza tra dissezione a scopo di studio anatomico e autopsia, ossia il mezzo per l’esame necroscopico necessario a formulare una diagnosi post-mortem: in questo senso la prima autopsia documentata fu quella del 1286 di Fra’ Salimbene da Parma nel corso di un’epidemia che, dopo aver sterminato tante galline, si era estesa all’uomo. Il medico-frate aveva trovato all’esame delle galline morte delle vescicole sul cuore, e allora esaminò un cadavere e trovò sul cuore umano le stesse vescicole.